spruzzi

(Porto Cesareo, 18 luglio 1997)

 

Spruzzi impazzano in alto

spezzati da pezzi di vento

Salata quest’aria

ma tanto

che dà meraviglia,

che tempo

Il tempo che da lontano

ritorna irruente

per far sobbalzare

la gente, irata o felice

in contempo, dell’aria infilzata,

per colpa di un mare in cornice.

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Guardare Euridice

Siedi su una poltrona rossa e non sai. Che Euridice è lì per te, per smuoverti dal torpore del tempo passato a mollo nel dolore. E invece in un attimo sei scaraventata sul palco, anche tu, nel luogo scarno e ruvido delle parole e dei gesti, della vibrazione dei nervi tesi di chi è di là a contrarre i muscoli del collo, il tuo, di qua.

Siedi in quel buio caldo e non sai quanto sarà tua l’Euridice che amorevole lotta con un Orfeo affranto e incapace di guardarla morta. Quel buio caldo che ti sale dall’interno, a stringerti la gola ed eruttare una verità che non sapevi di possedere. Tu che pensavi speravi credevi di tenerlo in vita Pier, almeno nel pensiero, quel non averlo visto steso tra i fiori era l’unico ultimo appiglio cui aggrapparsi forse, tu che ti ostinavi a non abbandonare l’idea di vederlo entrare da quella porta da un momento all’altro col suo solito sorriso e la sigaretta tra le dita a dirti le parole amiche di sempre, ora ti ritrovi a fare a pugni con la parola rispetto.

Guardare Euridice dritta in faccia non è mica facile Pier, meglio il dolore vivo e atroce delle lacrime che sgorgano improvvise nonostante sia passato un anno ormai. Improvvise come fosse ieri, quel telefono a squillare per dirmi che tu non eri più.

Dovrei lasciarti andare quindi. Rispettare tutto quello che sei stato, il bello e il brutto di una scia di vita che si è fatta cenere. Chiudere il cerchio, vivere senza, comunque. Guardarti. Ammettere di essere sospesa nell’egoismo ostinato che, è vero, vivo non ti tiene. E farne cenere, attraversarla coi passi a sedimentare.

 

euridice 4

 

(Tutti a teatro a vedere Euridice e Orfeo!

di Valeria Parrella

regia Davide Iodice

con Michele Riondino, Federica Fracassi, Davide Compagnone, Eleonora Montagnana)

Sul bordo del lavabo

schiuma 1Striscia

di soppiatto nonvisto.

Spumeggia, silenzioso annusa

pietanze ormai andate incontro

all’in-contro ormai  tragico e sublime

coi succhi gastrici famelici di sintesi.

Spia la spugna

nella minaccia dell’andirivieni

sul bordo di un piatto fu letto

di una bieta divina.

Mi guarda con aria stupita,

fa il furbo, barbetta insolente.

Già tenta l’avanzata,

già allunga il braccio schiumoso

ma ZAC!

 

Lo sciame inquieto

Uno sciame inquieto oggi 8mi accoglie, io valigia alla mano arrivo in stazione e lui lì spezzato in aria a volteggiarmi addosso agli occhi in danze di saluto. I volatili romani sono così affettuosi, penso, chiassosi e isterici ma affettuosi, mi guardo sulla testa e vedo ellissi farsi alfabeto e caos steso nel cielo del crepuscolo. È martedì di quasi natale e sembra un maggio pieno di energia, mi alzo un po’ la sciarpa sul mento per ricordarmi che no, e avanzo col sorriso verso il viaggio che mi aspetta. Si va giù, dove tutto si ferma in attesa del ritorno, giù nelle mura del prima, che tira l’adesso a sé, che chiama silenzioso a tempi alterni per non lasciarmi allentare troppo la presa. Un tira e molla che a volte piace a volte meno, e ora lo rivedo in cielo e mi fa casa tra le nuvole sparse di questo martedì sereno.

 

Chiusi gli occhi

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Nella notte degli esseri pensanti, mi rigiro mollemente carezzando sogni e pensieri. rimescolo i volti della veglia e ne ritrovo i pezzi incastonati e nuovi sotto le palpebre stanche.

Non mi piace fare i resoconti, della giornata come del lungo termine, ma invece gioco a reinventarne le sorti, in fondo abbiamo tutti bisogno di un’altra chance.

C’è chi prega, chi impreca e non riesce ad ingoiare, io chiudo gli occhi e mi concedo, in quel tempo di mezzo che mi separa dal dolce oblio notturno, la grottesca rivisitazione della noia giornaliera.

Lo scarabocchio è un gesto universale

scarabocchioalessia… dice con la matita quanto non si riesce a dire con la parola.

C’è qualcosa di magico, di puro, di artistico che lega il piccolo al mondo e che accomuna i bambini di ogni parte della terra.

Alcuni artisti contemporanei mantengono un contatto specifico scarabocchio-giuliacon questo tipo di gestualità che, nel percorrere una traccia apparentemente informe sul foglio, rivive il gesto primitivo legato alla possibilità di esprimere se stessi, di lasciare un’impronta.

I nostri figli, quindi, con lo scarabocchio, celebrano l’origine della scrittura. Esso è un atto primitivo, ma carico di significato: è l’inizio dell’avventura, un momento della costruzione del linguaggio scritto che diventerà COMUNICAZIONE.

(Cotti-Magni, Non sono scarabocchi)

(J. Pollock, Mural on indian red ground)

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Giustificazione cercasi

Giustificazione cercasi

quale palliativo

ad atteggiamento

anomalo rispetto

alla pressante attesa

della comune disapprovazione.

 

Immagine

il tondo mezzo

Ritrovarsi davanti al tuttotondo tagliato in due da mezzo a mezzo e decidere di attraversarlo tagliente e aperto non è piacevole, stringe alla gola stretto. Il lucido ferro brilla di lacrime e saliva, acceca e illumina di riflesso e tu non sai far altro che oltrepassarlo, per ritrovarti al buio nuovo e cupo di sempre: il tondo mezzo, e ancora non sai dove sei.

Colpevole

Le bocche cariche di parole sentenziano salivando senza sosta, i baveri messi a difesa dei bei vestiti in mostra della moralità diffusa.

Colpevole sono colpevole. Di vivere le discrepanze. Di non fuggire al dolore, anzi volerlo trascorrere. Della mia finitudine nuda.

Colpevole, sì, e chiara alle paure da dipanare, i nodi mi piace snodarli, lentare il filo teso, mai spezzare per velocizzare (e raggirare).

Pur resistendo, il groviglio mpaurato, alle dita maldestre. Lo sguardo fisso e silente.

 

bocca

Goccia

Goccia

che si cruccia

in un mare di sale

Seconda pelle

Seconda pelle

insinua

struscia di odorosi pori.

Serpente sei

negli occhi ipnotici,

mi lasci muta

in bocca setosa liquirizia.

forchetta VS cuècciuli

Ogni famiglia salentina che si rispetti ha, nel cassetto delle cianfrusaglie, una forchetta sgangherata, utile agli scopi più vari, ma soprattutto a tirar fuori dal loro guscio i “cuècciuli” lessati appositamente per l’insalata di mare.

Chiunque userebbe un semplice stuzzicadenti.

Noi no, noi amiamo scombinare un servizio di posate, in genere fin dal principio di un matrimonio, e continuare nei decenni a venire a deformare e martoriare la prescelta fino anche a farle perdere tutti i denti.

 

 

 

 

 

 

Il furgoncino che fischia

“Veramente Oporto manteneva certe tradizioni che Lisbona aveva ormai perduto, per esempio alcune pescivendole, nonostante fosse domenica, con le ceste di pesce sulla testa, e poi quei richiami dei venditori ambulanti che gli riportarono alla mente la sua infanzia: le ocarine degli arrotini, le cornette gracchianti dei verdurai. Attraversò Praca da Alegria, che era davvero allegra come diceva il nome”.

(A. Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro)

In numero minore rispetto a quando ero piccola, certamente, ma anche il mio paesino conserva qualche storico venditore ambulante. Ne è esempio il furgoncino che fischia. Da che mondo è mondo, la mattina presto, immersa che sei nella fase REM, lo senti netto quel fischio assordante: non è un treno che ti porta lontano né un ragazzo che ti ammira per strada, è proprio lui, parte dal suo altoparlante ambulante, attraversa terrazzi e giardini fino al tuo, filtra la zanzariera della camera e ti si insinua nelle orecchie: FI-FI-FIIIII… Due FI corti e un FIIII lungo, in una sequenza di tre volte, poi tace per sei-sette secondi e ricomincia, martello per il cranio, sveglia mattutina, gallo della contemporaneità, c’è solo da alzarsi e iniziare il rito della colazione, che a cosa può servire girarsi dall’altra parte, sì che tappi un orecchio, ma così stappi l’altro, e allora…

Il furgoncino che fischia l’ho sempre e solo sentito fischiare. Per anni mi son chiesta cosa mai vendesse, perché né slogan né musichetta né incitazione di alcun tipo ha mai fatto seguito all’assordante zufolare, solo quel FI generico che mah, passa troppo presto dalle mie parti e mi trova sempre impreparata, avvolta irreparabilmente dalle lenzuola.

Fino a qualche giorno fa: passeggiando in una viuzza di ritorno dalla posta,  sento giungere l’inconfondibile richiamo. Drizzo il pelo e do un’occhiata furtiva in giro, quando eccolo svoltare l’angolo e venirmi incontro. Detergenti, secchi, scope, tutto quanto serve alla casa; e lui al volante: sessantenne dalla faccia paciocca, microfono piazzato comodamente accanto al finestrino. Mi scorge lontano, mi guarda guardarlo insomma ci guardiamo, già comprende il perché della mia espressione d’attesa, comprende e abbozza un accenno risolino. Continuo a fissargli le labbra che siamo quasi l’uno affianco all’altra. E mi fa: FI-FI-FIIIIIIII… solo per me!

PEZZO DI PUZZLE (2)

 

https://ficatigna.wordpress.com/2012/06/01/pezzo-di-puzzle/

– Ps Psss

(…)
– Pss Pssssss

(… zzZz…)

Mattinata noiosa, ma non più del solito: sveglia dei puzzle al rumore assordante della tapparella, luce improvvisa a inondare il tavolo e ridar giorno ai cumuli sparsi, suono di moka pronta, scartoccìo di brioche, doccia, telefonata e via, due mandate alla porta e silenzio totale. Tutti accatastati a guardarsi insonnoliti l’un l’altro, qualcuno incastrato nel mezzo ancora dormiente. Pezzo non ce la faceva più. Diede la solita occhiata intorno, stanco d’esser ancora messo da parte e terrorizzato dalla paura di non venir più scelto. Quando sarebbe tornata la grande Mano dai suoi affari fuoriporta? Come poteva uscirsene con il tanto da fare sul tavolo ancora in subbuglio? Con scorci di incastri qua e là, e lui ancora lì ad attendere di veder svelate le curve del suo corpo rigido e incompleto? Tra un sospiro e l’altro, ricadde nel sonno.

– Ps Pss

(… zZzzz…..)
– Psssssssssssssss

(… zzZzZzzzzzz….. ronf ronf…)

Aprì gli occhi. Si guardò intorno dall’alto del suo palazzo di cartone. Chi lo chiamava?

– Pssssssssss!
La vide. Era bella, sfolgorante in quel raggio di sole che le arrivava addosso direttamente dalla finestra! Gli fece l’occhietto e sorrise, era tra i Coloratissimi, su in cima, in bella vista, quasi in alto quanto lui, a pochi centimetri di distanza (che in termini puzzleiani non è poi così vicino, ma abbastanza per comunicare decentemente). Era azzurra, rossa, nera e gialla, un trionfo di toni, una bellezza davvero.

– Ciao! (disse lei)

– Ciao…

– Che fai?

– Riposavo… tu? (rispose timido e incerto)

– Guardavo fuori. Sai che è passata una nuvola?

– Davvero? Correva?

– No, era lenta lenta, meno male, me la son gustata per benino!

La fissava, ma che bel viso ammiccante, e lui tutto un fruscio di pensieri: che altro dire? Si guardò addosso e vide altri tratti, altri colori, di un incastro impossibile. Ma come poteva essere?

– Che colore hai a sinistra?

Indagava lei speranzosa. Pezzo buttò un occhio alla curva destra di lei, azzurro.

– Azzurro!

urlò… ed era di un bronzo smunto e indefinito.

to be continued

Come annientare il proprio sex appeal leggendo MEMORIALE DEL CONVENTO

Pomeriggio assolato terso ritagliato appositamente per starmene da sola su un pedalò attraccato a riva, a prendere il sole, lasciandomi ondeggiare nel completo silenzio del nessuno intorno.

Da queste parti non si vede granché gente, appena qualche famigliola che porta i bambini a bagnarsi, di solito nel weekend, ma oggi neppure questo, sola solissima. Giusto io… e Big Jim. Lo intravedo spiaggiato spalancato a cogliere il pur minimo raggio che dori a dovere la sua pelle assetata. Più tardi farà per entrare in acqua e mi passerà accanto ammiccando, per tentare un approccio o forse darsi arie da macho. Sorriderò fingendomi Barbie a Malibù e vezzeggiandomi a svampita pur io, che ogni tanto ci vuole, ci riescono mica solo gli altri eh. Metto crema-campioncino, mi giro e mi rigiro a tempo, cotoletta smaniante abbrustolimento. Primo bagno di Big Jim, camminata verso gli abissi, sorriso durbans, tuffata atletica; sfoggio moine e allaccio lacci scomodi, pudica e a dire il vero anche un po’ dispiaciuta della solitudine violata. Nella borsa mi aspettano, infatti, le pagine finali del libro, volevo appunto riservarmi un’atmosfera adatta, raccolta, non so voi ma io quand’è così, davanti a una bella lettura, a una bella storia, di quelle che catturano l’anima come poche volte accade, ci tengo a chiudere in un certo modo, dedicandoci un momento particolare, scelgo spazio e tempo, predispongo tutto accuratamente. E infatti approfitto dell’atmosfera silente e mi immergo nella carta che aspetta.

C’è anche da dire che io la fine di un libro devo leggerla necessariamente ad alta voce. Non so bene perché, lo faccio da sempre: solo le ultime due, tre pagine… mi piace, mi sembra di dare ancora maggiore importanza alla cosa. Fatto sta che, vista la quiete, inizialmente comincio a bassa voce, un rigo dopo l’altro, ma di lì a poco mi addentro talmente nel racconto, che mi si rivela più straziante di quanto lo era stato fino ad allora, da venirmi giù certi improvvisi lacrimoni, che povera Blimunda a cercare sulla terra ciò che sa sta in cielo, a correre stanca scalza e lacerata per placare una disperazione ormai irrimediabile…. E io una soffiata di naso a ogni suo passo, una lacrima per ogni lembo strappato alla veste, quanto sanno essere crudeli gli eventi, quanto possono incastrarti vittima di un destino ingrato! Lacrime a non finire.

E finalmente e purtroppo l’ultima riga, l’ultimo sospiro. E  l’immancabile carezza di ringraziamento al titolo che tanto mi ha dato… Mi guardo intorno soddisfatta e sazia: le acque cristalline mi coccolano placide, i gabbiani in lontananza viaggiano ignari, a filo d’acqua, in cerca di cibo… e lui, Big Jim, steso sul suo telo a15 metridi distanza! E lì l’amara constatazione: avrà di certo sentito tutto, la mia lettura affaticata dal pianto, lo sforzo tenace della mia eroina, perle rivelate ad orecchie ignare di un vissuto emotivo inafferrabile… avrà pensato Questa non sta bene! Ah povera me, altro che Blimunda.